24/03/14

PLACEBO - "Loud Like Love"






















"Io ho fuso in un unico colore di felicità la bellezza del sogno e la realtà della vita." (Fernando Pessoa, "Il libro dell'inquietudine")




(2013, Universal./ Pop-rock)



Una visione diversa di un disco compatto e maturo.


         Ammettiamolo: questa volta i Placebo erano quasi riusciti a gabbarci. Con quel singolone "Too many friends", che si stampa in testa, appiccicoso come non mai, e non ne esce più, ci avevano fatto credere che la strada intrapresa potesse essere quella di un power pop molto, troppo radio-friendly. Non che si tratti di un pezzo sgradevole, anzi, l'anafora "my computer thinks I'm gay" e l'invettiva di Molko contro le amicizie da social network hanno raccolto -legittimamente- consensi in tutto il mondo, ma "Loud Like Love" è un album che ha molto di più da dire.

Il tempo dei rossetti e delle parole arrabbiate sono finite, o quasi; Brian Molko non è più un adolescente che urla la sua teenage angst, ma è un uomo di quaranta anni, sposato (l'avreste mai detto?), che però non perde la sua verve malinconica e la sua sbilenca attitudine per atmosfere ombrose e parole accigliate. In effetti, oltre alle due anthem, la già citata "Too many friends" e la title-track, "Loud Like Love", luminosissima e positiva, costruita su climax emotivi a là "Battle for the sun", gli altri brani si avvalgono tutti di luci soffuse, delicatissimi affreschi di un'emotività ferita e traballante, di una presa di coscienza nei confronti dei propri errori. Come in "A million little pieces", forse la cosa più sincera che potesse mai uscire dall'estro di un Brian Molko sempre più ispirato, in cui confessa che ogni volta che si sentiva in errore verso la persona amata correva a scrivere una canzone, come a far deflagrare un'urgenza creativa incontenibile, ma che man mano l'ispirazione è andata persa, frantumandosi negli angoli di una strada senza più la speranza -o l'illusione- di poter risplendere.
Prossimo singolo?


"Loud like love" è fondamentalmente un album di ballate; chi si aspetta uno sprint rockeggiante rimarrà deluso perché a farla da padrone è una sensibilità purissima, un umore -e un amore- inquieto e malinconico. Ad interrompere questo trend ci pensano, in fondo, solo due pezzi: la trascurabile "Rob the bank", unico filler di dubbia qualità, e la carica erotica della bella "Purify", accompagnata da un video che ne supporta la qualità. In effetti un'altra prerogativa di questo lavoro dei Placebo sono i videoclip, curatissimi, che vanno a disegnare storie, senza rinunciare ad una punta di ironia. I Placebo si sono affidati a giovani registi e hanno realizzato dieci video alternativi, uno per ogni canzone. Anche per questo non deve stupire che "Loud Like Love" sia l'opera meglio realizzata di tutta la loro carriera. I nostri dimostrano di aver trovato un proprio sound, diverso da quello dei primi album ma che sprizza comunque Placebo da ogni poro, un sound moderno e riconoscibile, cucito su misura della nuova formazione, con il giovane batterista punk Steve Forrest che ha sostituito, già dal 2008, lo storico Steve Hewitt, un Brian Molko meno eccessivo ma ancora più appassionato, e Stefan Olsdal che guadagna punti sul palco.

Retro del booklet di "Loud Like Love" 


Si può dire, dunque, che "Loud Like Love" costituisca l'album della maturità per il gruppo.
E se "Scene of the crime" si fonda su un hand-clapping che farà furore ai concerti e un tappeto di elettronica minimalista ma distorta tale da poter essere ribattezzata una "English Summer Rain" 2.0, non è inusuale trovarsi ad ascoltare la voce di Molko accompagnata solo da pianoforte e violini, come nella conclusiva "Bosco", un brano che, proprio quando potrebbe iniziare a diventare stucchevole, si trasforma in una piccola gemma.





Merita di essere citata anche "Exit wounds", in cui l'amore diviene delirio di un tradimento immaginato a cui si assiste con insanabile tristezza mascherata da rabbia e sottile prepotenza morale; un forte voyeurismo la pervade tutta, sostituendo però la sensualità con la disperazione, e assume un sapore ancora più amaro nella voce metallica del cantante.
Rimangono, perciò, intatte le dinamiche che hanno sempre caratterizzato il mondo Placebo: la forte propensione per melodie perfette e la forma-canzone, un'estetica edonistica e sensuale, la descrizione degli affanni nei rapporti sociali e una più che autentica introspezione, il tutto avvolto in una forma accattivante ma che ormai ha raggiunto un proprio equilibrio, quadrato, ambizioso, raffinato. Forse un po' patinato.
Ma, diciamoci la verità, cari i miei critici dogmatici, ecologici e altezzosi: c'è una bella differenza tra un lavoro lezioso e uno semplicemente ben fatto.

♪♪







                     (24/03/14)



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